sabato 30 gennaio 2010

Confessioni d'altri

Bastano due frasi, dette con le giuste pause, in contesti e con codici diversi, per non comprendersi.
Rocamadour, buono con me, nasino di porcellana, denti come meravigliosi purosangue, eppure qualcosa nello stomaco piange, perchè vedete Rocamadour, non c'è posto per chi inventa storie, per chi vive la pelle, non c'è posto per nessuno se non per sè stessi a questo mondo, per se stessi in un mondo costruito con le nostre proprie categorie, quelle che fanno dormire bene la notte, non c'è posto, mentre voi, se vi tagliassero a pezzetti il vento li raccoglierebbe il regno dei ragni cucirebbe la pelle e la luna tesserebbe i capelli e il viso e il polline di un dio di un dio il sorriso.

Voi non potete, oh, muy senor mio, non potete sopportare e tollerare, potete ma a noi non basta, purtroppo, vedete, è questo il problema, noi ci svegliamo e dalla schizofrenia cantiamo de andrè, ci rivolgiamo al maestro di Parigi o forse di Buenos Aires, ci abbandoniamo a farneticare, ogni gesto per noi è l'identica ed esatta copia del primo (ma del primo forse non con voi, del primo gesto da un tempo imprecisato, del primo da quando le mani hanno iniziato il lungo apprendistato del ventre e delle movenze) ed è là, oh, se voi sapeste, è là che si incrociano le sensazioni che il linguaggio si sforza di far esistere e rappresentare, per regalarvi un pezzo del nostro squallido mondo fatto di parole che inseguono senza senso un'idea, forse una paura,
per prendere quella paura e infilarla piano in una frase amarognola, che puntualmente viene compresa colpita e capita, viene spogliata dall'immaginario con cui avevamo tentato di confezionarla, puntualmente, così voi ci fate crescere, ci fate comprendere che è impossibile o scomodo il ruolo del bambino o del pazzo, o del filosofo senza tempo, che chiede aiuto al maestro precedente e a quello di ancora prima.
Rocamadour, questo nome è esotico e forse ci piacerà iniziare a chiamarla così, come se fossimo la Maga, scrivendo parole nello specchio e bagnandoci il dito per non piangerci sopra, perchè non siamo in grado di comprendere la bellezza della vita che voi ogni giorno ci affermate di vedere tra le nostre mani, seta invisibile e delicatissima, che continuiamo ad annodare attorno a pensieri stanchi e ai tumori volontari generati dal dubbio e dalla gelosia di voler essere qualcun altro che ancora non sappiamo chi.
Non so perchè ci riduciamo sempre a scrivervi, a voi così come agli altri, quando è per noi che dovremmo scrivere, coccolarci con le nostre stesse armi, per iniziare ad amarci un po' di più, per iniziare a comprendere la bellezza del nostro sentimento che ci rende così sciocche, oh, se voi sapeste come preferirei giocare a far la donna in carriera o la femme fatale, ci proviamo e ci proveremmo ancora se non comprendessimo che sono figure troppo grandi e sbagliate per noi, le loro unghie verranno irrimediabilmente rosicchiate al primo accenno di debolezza dal bambino sciatto o forse dall'incurabile malato, se voi sapeste la forza del nostro volerci cambiare, a differenza di chiunque, per modellarci attorno alla vostra figura con l'ansia camaleontica della metamorfosi continua, come uno stampo di gesso, assumendo la forma dell'ideale che è nella vostra testa, senza concluderci che non c'è ideale e che figurarci intorno ai vostri pori non è la scelta che condurrà alla felicità, eppure, Rocamadour, la colpa non è vostra, voi ci amate e noi lo sappiamo, ma sappiamo che ancora una volta, se anche voi sapeste- oh, perchè devo dirlo a voi, perché, -se voi sapeste, che dentro le ossa c'è una vita che ha preso la forma dei vostri polpastrelli, ma è dentro la nostra testa che non riusciamo ad essere vostra, per comodità o per affaticamento, voi forse riuscireste a comprendere, e ci abbandonereste in un sorriso, con i migliori auguri di non rovinare la vita a nessun altro e iniziare a cercare noi stesse. Ma questo non ve lo posso confessare, e voi non potreste arrivare a comprendere il disegno di una psicopatia ormai talmente rodata che ci appartiene tanto quanto le unghie dei piedi o delle mani.
Eppure voi, Rocamadour, musica tra le lenzuola, fili d'argento tra i capelli, Rocamadour, casa, cucina, bacio, torta.......

martedì 12 gennaio 2010

12 gennaio 2010 - non ricordo altro


Ci sono delle cose che succedono e basta, pensava N. ricordandosi della Tana.

Accade, per esempio, che nel momento di più completa e perfetta felicità, qualcosa soggiunga a rabbuiarci, creandoci non pochi problemi. Basta un colore, per sentirsi squallidi, e guardare la propria vita come la guarderebbe un'altra fortunata.

N. aspirava nervosamente la sigaretta in un silenzio fatto di sonno, l'alba sarebbe arrivata tra poche ore. Accanto a lei riposava beatamente tutta la sua felicità, abbastanza distante per poterla guardare e stimarne il valore socchiudendo le palpebre.

In quello strano flusso di coscienza che accompagna il dormiveglia, N. forse non si sentiva ancora pronta per tutta quella grazia ricevuta di colpo, che la faceva sentire un essere piccolo, piccolissimo di fronte alla meraviglia di quel mondo.

Talmente tanta meraviglia che avrebbe potuto rimanerne stupefatta, ma stupefatta come da uno stupefacente.

Ripensò alla Tana, e a cosa avrebbe dovuto fare. Forse raggiungerla attraverso i suoi riccioli scomposti, in un mondo fatto di sterco e rassegnazione in cui lei riusciva a sorridere dall'alto della sua disperazione, dalla quale aveva tirato fuori un vestito niente male da indossare giorno per giorno come uno scafandro d'alluminio, per garantire l'immonda sopravvivenza del teatro di scena, che peraltro cambiava in continuazione.

Ora N. ripensava nel sogno a quell'assurda commedia, chiedendosi se mai fosse accaduta.
Adesso era là, al sicuro dal sangue e dall'odore di piscio dei rincones, al sicuro dai pugni sul naso e
dalle fitte dentro lo stomaco.

L'aria della notte si stava cancellando e andava prendendo la forma del respiro o del fumo.
N. chiudeva gli occhi, come tutte le notti senza volerlo veramente fare, e là ripensava alla sua gioia, alla Tana che piangeva, vedeva i suoi capelli tristi sul viso smunto, le costole ossute a bucarle i jeans ormai sgualciti.

-Adesso starà aprendo la porta al mostro, accogliendone gli insulti come la solita bienvenida, il rimprovero per la tavoletta del water macchiata di sangue, le tende da mettere in lavatrice, la corrispondenza e i documenti a inondare il letto, già pieno di briciole e appiccicoso di qualcosa che doveva essere miele. Gli servirà l'ottima cena che era riuscita a rimediare in uno dei suoi pali- si, la Tana faceva il palo, la si vedeva ogni giorno alle tre davanti a quel bidone, aspettando l'ora consueta in cui il garzone avrebbe rovesciato primizie di carne, pescado e verdure nella voragine metallizzata. A quel punto, incurante degli sguardi ingioiellati che svuotavano i carrelli ricolmi dentro gli interni in pelle del compagno di turno, avrebbe aperto avidamente il suo rancio, guadagnando una zucchina, dei peperoni, qualche coscia di pollo, e se fosse stata fortunata, degli strepitosi gamberetti. Immaginava il modo in cui li avrebbe cucinati, e come gli avrebbe raccontato la lotta per la conquista del bidone, la difesa del cibo dalle grinfie delle egiziane, che giustificavano la necessità col numero dei figli e dei mariti, e Monica, la buona Monica, coi suoi occhi tristi da ubriaca a scalciare perchè anche lei di figli ne aveva, ben tre, e suo marito era in carcere perchè era stato denunciato e la picchiava, e i suoceri la tenevano rinchiusa in una stanza senza luce, ma questa è un'altra storia.
Tornata a casa, avrebbe contato le ore, e racchiuso i desideri nel guscio di ogni gambero, dominando l'angoscia dell'attesa coi mestoli, giocando con le bolle dell'acqua, assaggiando ogni portata con un immancabile mmmmmmmm che si faceva sempre più acuto nell'aria, si univa al profumo delle pietanze e si infilava sotto le porte e le finestre fino al patio- tutti, l'avrebbero sentito
entrare e sbraitare per il disordine che era il suo, costruendo a insulti la rivendicazione del maschio dominante. Era questo che concludeva quell'ora tanto ricamata durante il giorno a suon di sospiri e sbattere le uova con la farina, punto 3 della ricetta di una tarta de chocolate che ingurgitava senza lasciarne traccia del passaggio tantomeno a parole.
Povera Tana!

"Molta gente mi chiede perchè lo faccia, se sono nata masochista o sono semplicemente pazza." -
raccontava la Tana al cerchio dei curiosi, con un'istituzionalità da conferenza stampa - "io dico semplicemente che sto facendo Esperienza, e mi va bene cosi'." Poi sorrideva, domandava da far su, e in una nuvola di fumo spariva- nessuno l'ha vista piangere mentre si allontanava facendo spallucce come l'eroina di uno dei racconti che scriveva per ravvivare il caminetto immaginario nei giorni d'inverno, col broncio di una bambina bellissima che ha perso la sua bambola preferita in una domenica al lago-

E poi un repentino cambio scena, breve come uno sbatter d'ali o di palpebre, annunciava la favola ormai consueta.
La favola era un sogno che N. ripeteva ogni notte, dal giorno in cui la Tana l'aveva salutata con la mano nell'ultima despedida.


Lei era piccolissima, e una barba ignota le consegnava la chiave d'accesso a un giardino di cristallo, fatto di alberi enormi che pullulavano di frutti e fiori magici.


La sfortunata non era stata avvertita di camminare piano, con una lentezza d'incenso. Le avevano così aperto la porta e lei aveva corso, come d'abitudine, misurando le gioie del suo raccolto, e meravigliandosi che quello che da sempre aveva seminato in forma di lacrima o di mare sotto il cuscino era ormai mirabile opera del destino i cui frutti baluginavano al sole di un cielo qualunque.


Ma appena terminava di compiacersi che un rumore improvviso, come d'uragano, scuoteva la terra, e lei si rendeva conto solo un attimo dopo di aver interrotto la religiosa quiete coi suoi passi rozzi e senza equilibrio. La terra le si apriva sotto i piedi stridendo come lo strofinarsi sincronico di due metalli, e mentre un lamento di sirena accompagnava l'irreparabile squarcio ecco un bubbolio sempre più vicino, un ribollire d'api o di calabroni e poi uno ad uno i suoi frutti che iniziavano a cadere, e N. doveva superarsi e correre per salvare tutta quella bellezza, e mentre ne afferrava uno, l'altro irrimediabilmente seguiva una linea verticale subito dietro le sue spalle, arrestava un bocciolo e subito davanti ne stavano altri venti che la beffavano in mirabili cadute.


Rotolavano a terra e si rompevano, uno dopo l'altro, con un fragore di milioni di posate che cadono all'unisono su scale di ceramica, e per inerzia alcune rotolano, con un lamento che si ripete come un' eco, e N. avrebbe voluto prenderle tutte, ma le sue mani erano piene di tagli, e tutto continuava a cadere, ed ora dimentica di ciò che stava facendo, lasciava rotolare quello che aveva appena afferrato per riuscire a fermare dalla distruzione quell'altro, poi l'altro ancora, e le cose continuavano a cadere, e lei sapeva di aver rovinato tutto senza volerlo, lei voleva, ma non era pronta per tutta quella ricchezza, che adesso le si sbriciolava contro, e addosso, e le tagliava le mani, e il labbro superiore, e gli occhi pieni di sale, e le scarpe da cui ormai uscivano dita gelide e piene di sangue.




mercoledì 6 gennaio 2010

Il gioco del mondo.

Holiveira, la sua hangoscia
mi entra nelle ossa. Gira, spinge, ed entra dentro di me.
Oggi riprendo i medicinali sui comodini nuovi eppure stanchi.
Brividi nella pelle, brividi holiveiriani.

Vomito al mio specchio parole che non sappiamo,
sentendomi felice nei nuovi abiti, uguali a tutti gli altri riposti nell'armadio.

L'esistenza non riscalda. Le letture fotografano troppo,
o troppo bene, e ti impediscono di tentare nuovi approcci,
che solo si consumano in patetiche illuminazioni letterarie,
subito incenerite dall'ennesima accensione.

Il tuo stile incontrollato e sciatto,
come sempre, rigurgita vocabolari che ormai non so se mi appartengono o no.
Forse non mi sono mai appartenute.
Forse sono parole d'altri, o di altre.

La dannazione di vivere in una dimensione del sogno, come le notti bianche di San Pietroburgo.

Perchè non si riesce ad essere mai felici,
per soggetti come noi?

Perchè non abitare un altro corpo,
o forse un'altra anima,
perchè questi repentini cambi di scena,
questi sùbiti singulti dell'io,
che in un momento si riconosce e quasi
istantaneamente perde la soluzione vicina
con un supplizio nemmeno tantalico tanto effimera è la sua durata?

Holiveira mi possiede, o forse sono io che possiedo lui,
avviluppata in pagine umori e vita vera.
La vita vera. Forse mi rendo conto,
che non esiste che nel sogno.

E a nulla serve la consolazione degli altri,
che di questo stato hanno saputo farsi profeti,
le cui parole non vanno ritoccate neanche di una virgola,
a nulla serve l'angoscia di Lisboa,
il desassosiego,
l'apprendimento svogliato di un portoghese spicciolo
per ovviare ai brividi e al tedio,
a nulla le parole dell'uomo di Duino, di San Pietroburgo,
di Buenos Aires.

Io sono colui che sto leggendo,
oppure è lui che vuole entrare in me,
con un impossibile anelo.

Che gli dei mi concedano il beneficio della veglia,
o della stupidità, o l'arma della penna e del foglio
a macchiare centinaia di pagine per guardare
questa passione come nient'altro che
una (s)piacevole lettura.

Altrimenti, un giorno o l'altro,
ne morirò.