martedì 12 gennaio 2010

12 gennaio 2010 - non ricordo altro


Ci sono delle cose che succedono e basta, pensava N. ricordandosi della Tana.

Accade, per esempio, che nel momento di più completa e perfetta felicità, qualcosa soggiunga a rabbuiarci, creandoci non pochi problemi. Basta un colore, per sentirsi squallidi, e guardare la propria vita come la guarderebbe un'altra fortunata.

N. aspirava nervosamente la sigaretta in un silenzio fatto di sonno, l'alba sarebbe arrivata tra poche ore. Accanto a lei riposava beatamente tutta la sua felicità, abbastanza distante per poterla guardare e stimarne il valore socchiudendo le palpebre.

In quello strano flusso di coscienza che accompagna il dormiveglia, N. forse non si sentiva ancora pronta per tutta quella grazia ricevuta di colpo, che la faceva sentire un essere piccolo, piccolissimo di fronte alla meraviglia di quel mondo.

Talmente tanta meraviglia che avrebbe potuto rimanerne stupefatta, ma stupefatta come da uno stupefacente.

Ripensò alla Tana, e a cosa avrebbe dovuto fare. Forse raggiungerla attraverso i suoi riccioli scomposti, in un mondo fatto di sterco e rassegnazione in cui lei riusciva a sorridere dall'alto della sua disperazione, dalla quale aveva tirato fuori un vestito niente male da indossare giorno per giorno come uno scafandro d'alluminio, per garantire l'immonda sopravvivenza del teatro di scena, che peraltro cambiava in continuazione.

Ora N. ripensava nel sogno a quell'assurda commedia, chiedendosi se mai fosse accaduta.
Adesso era là, al sicuro dal sangue e dall'odore di piscio dei rincones, al sicuro dai pugni sul naso e
dalle fitte dentro lo stomaco.

L'aria della notte si stava cancellando e andava prendendo la forma del respiro o del fumo.
N. chiudeva gli occhi, come tutte le notti senza volerlo veramente fare, e là ripensava alla sua gioia, alla Tana che piangeva, vedeva i suoi capelli tristi sul viso smunto, le costole ossute a bucarle i jeans ormai sgualciti.

-Adesso starà aprendo la porta al mostro, accogliendone gli insulti come la solita bienvenida, il rimprovero per la tavoletta del water macchiata di sangue, le tende da mettere in lavatrice, la corrispondenza e i documenti a inondare il letto, già pieno di briciole e appiccicoso di qualcosa che doveva essere miele. Gli servirà l'ottima cena che era riuscita a rimediare in uno dei suoi pali- si, la Tana faceva il palo, la si vedeva ogni giorno alle tre davanti a quel bidone, aspettando l'ora consueta in cui il garzone avrebbe rovesciato primizie di carne, pescado e verdure nella voragine metallizzata. A quel punto, incurante degli sguardi ingioiellati che svuotavano i carrelli ricolmi dentro gli interni in pelle del compagno di turno, avrebbe aperto avidamente il suo rancio, guadagnando una zucchina, dei peperoni, qualche coscia di pollo, e se fosse stata fortunata, degli strepitosi gamberetti. Immaginava il modo in cui li avrebbe cucinati, e come gli avrebbe raccontato la lotta per la conquista del bidone, la difesa del cibo dalle grinfie delle egiziane, che giustificavano la necessità col numero dei figli e dei mariti, e Monica, la buona Monica, coi suoi occhi tristi da ubriaca a scalciare perchè anche lei di figli ne aveva, ben tre, e suo marito era in carcere perchè era stato denunciato e la picchiava, e i suoceri la tenevano rinchiusa in una stanza senza luce, ma questa è un'altra storia.
Tornata a casa, avrebbe contato le ore, e racchiuso i desideri nel guscio di ogni gambero, dominando l'angoscia dell'attesa coi mestoli, giocando con le bolle dell'acqua, assaggiando ogni portata con un immancabile mmmmmmmm che si faceva sempre più acuto nell'aria, si univa al profumo delle pietanze e si infilava sotto le porte e le finestre fino al patio- tutti, l'avrebbero sentito
entrare e sbraitare per il disordine che era il suo, costruendo a insulti la rivendicazione del maschio dominante. Era questo che concludeva quell'ora tanto ricamata durante il giorno a suon di sospiri e sbattere le uova con la farina, punto 3 della ricetta di una tarta de chocolate che ingurgitava senza lasciarne traccia del passaggio tantomeno a parole.
Povera Tana!

"Molta gente mi chiede perchè lo faccia, se sono nata masochista o sono semplicemente pazza." -
raccontava la Tana al cerchio dei curiosi, con un'istituzionalità da conferenza stampa - "io dico semplicemente che sto facendo Esperienza, e mi va bene cosi'." Poi sorrideva, domandava da far su, e in una nuvola di fumo spariva- nessuno l'ha vista piangere mentre si allontanava facendo spallucce come l'eroina di uno dei racconti che scriveva per ravvivare il caminetto immaginario nei giorni d'inverno, col broncio di una bambina bellissima che ha perso la sua bambola preferita in una domenica al lago-

E poi un repentino cambio scena, breve come uno sbatter d'ali o di palpebre, annunciava la favola ormai consueta.
La favola era un sogno che N. ripeteva ogni notte, dal giorno in cui la Tana l'aveva salutata con la mano nell'ultima despedida.


Lei era piccolissima, e una barba ignota le consegnava la chiave d'accesso a un giardino di cristallo, fatto di alberi enormi che pullulavano di frutti e fiori magici.


La sfortunata non era stata avvertita di camminare piano, con una lentezza d'incenso. Le avevano così aperto la porta e lei aveva corso, come d'abitudine, misurando le gioie del suo raccolto, e meravigliandosi che quello che da sempre aveva seminato in forma di lacrima o di mare sotto il cuscino era ormai mirabile opera del destino i cui frutti baluginavano al sole di un cielo qualunque.


Ma appena terminava di compiacersi che un rumore improvviso, come d'uragano, scuoteva la terra, e lei si rendeva conto solo un attimo dopo di aver interrotto la religiosa quiete coi suoi passi rozzi e senza equilibrio. La terra le si apriva sotto i piedi stridendo come lo strofinarsi sincronico di due metalli, e mentre un lamento di sirena accompagnava l'irreparabile squarcio ecco un bubbolio sempre più vicino, un ribollire d'api o di calabroni e poi uno ad uno i suoi frutti che iniziavano a cadere, e N. doveva superarsi e correre per salvare tutta quella bellezza, e mentre ne afferrava uno, l'altro irrimediabilmente seguiva una linea verticale subito dietro le sue spalle, arrestava un bocciolo e subito davanti ne stavano altri venti che la beffavano in mirabili cadute.


Rotolavano a terra e si rompevano, uno dopo l'altro, con un fragore di milioni di posate che cadono all'unisono su scale di ceramica, e per inerzia alcune rotolano, con un lamento che si ripete come un' eco, e N. avrebbe voluto prenderle tutte, ma le sue mani erano piene di tagli, e tutto continuava a cadere, ed ora dimentica di ciò che stava facendo, lasciava rotolare quello che aveva appena afferrato per riuscire a fermare dalla distruzione quell'altro, poi l'altro ancora, e le cose continuavano a cadere, e lei sapeva di aver rovinato tutto senza volerlo, lei voleva, ma non era pronta per tutta quella ricchezza, che adesso le si sbriciolava contro, e addosso, e le tagliava le mani, e il labbro superiore, e gli occhi pieni di sale, e le scarpe da cui ormai uscivano dita gelide e piene di sangue.




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