mercoledì 8 settembre 2010

lunedì 30 agosto 2010

Risvegli

Ci dev'essere qualcosa,
nel modo in cui le persone dormono,
come la chiave di volta per entrare nei loro mondi,
il decifratorio dei codici di ogni letto e anima,
la tripartizione mescolata da Freud,
e ogni altro vicolo cieco che la vita ci preclude.
Mi piacerebbe penetrare in quei sonni,
in quei silenzi sfilacciati o umidi,
in quel rantolare sommesso,
e strappare in tempo un frasario breve,
quindici o venti formule, non di più,
da utilizzare all'uopo o a caso,
assicurandomi di non sbagliare.

Se potessimo leggere di ciascuno
i vasti geroglifici dell'inconscio,
per farci un'idea senza domande,
senza fare male lasciando impronte,
come sarebbe il nostro risveglio?

Più conscio, meno sicuro?
Sicuro di noi stessi, meno degli altri, o viceversa?
Sarebbe un caffè tra le lenzuola differente,
orfano di occhi socchiusi a carpire cose che non vogliamo,
o che in fondo cerchiamo per poterci dire che non c'era bisogno.

Sarebbe l'agghiacciante lucidità di sapere
che non siamo stati sognati, o forse sì,
o che sogni simili evolvevano in maniera complementare,
mentre la nostra tentazione alla vita interiore scompare
lasciando dietro di sè un mucchio di specchi rotti,
e un ciarpame in cui è meglio per noi non rovistare.

giovedì 15 luglio 2010

Siempre me quedarà

la voz suave del mar, volver a respirar la lluvia que caerà sobre este cuerpo y mojara la flor que crece en mi...

sono di nuovo al punto di partenza, forse di arrivo, ma continuo ancora ad avere problemi di segnaletica, non già di direzione.
La direzione purtroppo la conosce anche il cuscino, nonostante cerchiamo di rimetterla poco a poco a posto...(del resto, a che giova?)

C'è ancora molto da capire...c'è ancora tanto da pensare...
E il non riuscire a fidarsi mai, e pensare che pensare a sè stessi sia impossibile.

Forse ha ragione Simone Weil: trattare gli uomini come uno spettacolo fantastico, ecc...
E poi più avanti: Impara a vivere la tua solitudine.
E ancora: le persone che amiamo esistono (o devono esistere) per noi come opere d'arte. Non devono aggiungere né togliere alla nostra vita. Loro hanno il privilegio di ricordarci che ci sono, e basta così.

Eppure, oppure, seppure..qualcuno c'è stato e ci sarà, o forse c'è, ma è un discorso altro, non c'è presente e noi viviamo di proiezioni meta e intertemporali questa è la realtà.
Ci svegliamo la mattina sorridendo perché le vacanze sono vicine, eppure se guardiamo a ieri ci rendiamo conto che la fuffa non cambia, solo l'odore delle frattaglie in busta chiusa che chiunque cerca di infilarci nel cervello, e che, ugualmente insensate, non portano a nulla.

Ricordo Banana Yoshimoto, un suo libro in cui parlava dei pensieri che si fanno durante le notti, e che formano una fitta nebbia che ci sovrasta, e che fanno giungere a conclusioni molteplici e inconsistenti quanto la schiuma.

E poi si dipinge un sorriso anche sulla bocca delle persone più vicine..e poi la gente vuole realtà...e poi tu sei poetica romantica...e poi, e poi in fin dei conti ti sei rotto il cazzo di tutti, è questa la verità.

Vorrei prendere le loro storie pulite, le  loro vite vuotamente felici, felici di un cazzo, e bruciarli, bruciarli insieme ai sentimenti sociopatici delle ventitre e cinquantadue, affinché non tornino più, né loro né gli altri, e poi sparire, come soffione al vento, come zanzara di giorno.

Disperdermi e volare. I sentimenti semplici sono i più stupidi ma sono i più veri, ma invece, (ancora Simone, la sua voce dentro le orecchie come un trillo di campane) noi viviamo nella complessità del complesso. Il problema del nostro tempo, la stupidità che si mette a pensare, la ballata delle iniquità che diventano serie, delle serietà che finiscono nel bidone del riciclo, e tutti a sistemarsi il colletto e la cravatta, il capello davanti agli occhi, il gel sulla tempia o sulle cosce, perchè tutti sono qualcuno, tutti devono rifuggire dal sentirsi persi, e così via durante la giornata, e poi dire che si è stanchi, dirsi che si lavora, che si ha un'esperienza, che bisogna staccare, che senso ha...che senso ha...

Svegliarti e mantenere oltre la tua la pantomima degli altri, della donna che chiede pietà sulle scale con sguardo fiero e provando essa stessa pietà per tutti gli altri sguardi fieri sigillati nelle loro giacche di prada o del cestino delle occasioni... non cambia nulla... non cambierà mai.

Poi in un momento c'è Madrid, un profumo particolare, un accento che ricorda un nonsochè, o forse era Alicante, e poi improvvisamente i tuoi occhi, e una bocca all'ingiù ma solo per abitudine.
Dicono che crescere raffreddi, ma vi mando in culo io per prima, meditava dentro di sè la Tana in tempi che un'altra milonga canterà.

martedì 4 maggio 2010

ieri

ti stavo disegnando sentieri
con due dita.
ieri mi chiedevi di abbracciarti e la risposta
più sentita era obbedire
senza pensare e senza presumire
di null'altro. Di null'altra
saràn gli attimi che il cuore
pensa gli sian rubati.
Di null'altra gli orgasmi,
i sospiri, i gemiti e i fiati.
La mente obbedisce senza alcun ritegno
alla letteratura ed allo sdegno.
Ci perdoni l'immaginario lettore
l'uscita scaltra, però di scelta non
c'è altra, e nella negazione naufraghiamo
"e naufragar c'è dolce in questo mare".


A volte il nonsense può più del silenzio.

Pirandelliana.

Crediamo d'intenderci. Non ci intendiamo mai.

Questo concetto mi rimbalza nella testa e nel cuore, ogni qual volta provo a fare luce su ciò che veramente vedo e non su ciò che sento.

Sentire distorce le informazioni, le adatta alle nostre iniquità, all'esser brevi che siamo: dobbiamo costruire uno schema mentale secondo cui sentiamo davvero la realtà scorrere all'interno degli argini precostruiti, nessun'inondazione improvvisa, nessuna parola in più o in meno, il giusto mezzo a cui aneliamo quotidianamente per poi sorridere e dirci dentro il letto che in fondo, siamo dei privilegiati.

Ho sempre odiato il mare piatto e calmo, ma appena inizi a vedere, vedere non guardare, la distonia può essere fatale.
Un corpo piccolo non ce la fa a star dietro ai rigurgiti dell'anima, al cuore che dentro il petto sembra scoppiare eppure se ti guardi dall'esterno ti senti terribilmente ricco e fortunato, ma certo, ragionando con la linea continua del sistema viario generalmente condiviso dai più, tu sei in perenne sorpasso e a rischio infrazione.

Ogni volta, meno 10 punti, ogni volta, rifare il benedetto esame per poter tornare a condurti come dovresti nella segnaletica d'affetti gesti e sguardi che le civiltà hanno costruito col tempo, non è permesso provare di più, rattristarsi per un film comico perchè non fa altro che farti vedere la pochezza di cui siamo fatti, e tu non vuoi accettarla no!, tu vuoi l'Amore, la Vita, l'Emozione, il Dolore, la Rabbia, ma non c'è più posto a questo mondo per le emozioni perfette, solo Platone le poté teorizzare e guarda com'è finito, a riempire pagine di libri senza capo nè coda, quello che la gente chiama Filosofia e in realtà è la vita vera.
Non c'è tempo di porsi domande, né tantomeno di porle agli altri, pena far crollare gli argini, sorpassare a destra, causare sicuramente un tamponamento a catena, a volte un incidente mortale tra le emozioni tue e quelle degli altri, e non c'è assicurazione che tenga nei rapporti con le persone, rouge o noir et rein ne va plus.

Sicchè ognuno si crogiola nella sua bella sfera isolata, cercando di non andare più in là del proprio palmo di naso, nessuno vuole sfondare il guard rail e vedere cosa succede dopo, se c'è per caso un'altra vita, oltre la linea di confine dei nostri pensieri, se potessimo non avere la paura di vedere più in là, se qualcuno, una mano, un compagno, fosse disposto a volerla, quella spinta, se fosse disposto a rischiare, ad ammaccare il parafango, a perdere qualcosa, pur di guadagnare dell'altro.

E invece le domande sollevano nella testa degli altri questioni insolute, e tu sei la solita pirata della strada, dalla quale è sempre meglio tenere la distanza di sicurezza, non si sa mai che trascini nella tragedia anche te e i tuoi bei interni in pelle e la marmitta nuova di zecca coi cavalli e tutto il resto.

venerdì 5 marzo 2010

Certezze del non.

La certezza è che la risposta è stata trovata, solo che come diceva l'autore di una trasmissione obsoleta, purtroppo è sbagliata.

Detto da Julio Cortazar, la sensazione di non riuscire mai ad essere l'alpha e l'omega, oppure il tremendo supplizio o il folle rischio da correre per raggiungerla.

E nel mentre, siamo epsilon, siamo kappa, amiamo i nostri pi, rho, facciamo la spesa da sigma, quest'ultima soltanto per dirci che riusciamo a strapparci un sorriso volontario e amarci un po' per questo, andiamo a bere mojiti, scopiamo, facciamo telefonate, scriviamo, ascoltiamo, rimproveriamo e consoliamo una gamma di psi, mi, ni, omicron, appendiamo al collo il tau, se servisse a qualcosa per un Occidentale sentirsi parte di un'altra accettazione del mondo mentre il tau si mischia al collo di pelliccia e all'orecchino Miluna volutamente asimmetrico rispetto all'acconciatura, e ancora, le fi, le beta, come le versioni di mondi virtuali che percorriamo ma che sono quasi già visti e sentiti più della relatà per definizione, lo schema sociale appartiene alla testa e non ci si mette un niente a ricrearlo dall'analogico al digitale, e nel frattempo è il weekend e bisogna avere l'ansia di trovare qualcosa da fare, divertirsi e sorridere, o piangere, sempre con chi, fi, lambda, delta, cercando forse dentro il bicchiere la promessa dell'inizio, o quanto meno una fine degna della complessità dei pensieri del cane o del pesce originale, che non riesce a essere nessuna lettera dell'alfabeto né tantomeno la prima o l'ultima.

martedì 23 febbraio 2010

SONO NEL BAGNO

e a un certo punto sotto i miei piedi si apre un mondo, proprio all'altezza del tappo di gomma nera che sigilla l'ambiente e la temperatura, che non è la temperatura ambiente.
I fumi delle spume odorose confondono, insieme al verde, e improvvisamente metto a fuoco e la finestra è diventata una porta, e il soffitto un pavimento immenso pieno di spechi.
Posso osservare albe come fossero tramonti, ma tramonti strani, dove le montagne sono nero che insegue il giallo, come vernice rovesciata le vedo colare tremole lungo la parete cielo in carta lucida.
E poi, maniglie che si sollevano come promesse o sorrisi.
A un certo punto quella nebbia però scompare.
E siamo di nuovo io e me, in mezzo all'acqua ormai torbida.

venerdì 5 febbraio 2010

ogni volta che nevicava

la tanita ascoltava nenie malinconiche e piangeva per gioco senza sapere mai bene perchè.
era come se il dolore la abitasse continuamente,
una maledizione alla quale non era possibile sfuggire, per certi strani moti del caso,
e la terapia consisteva nel riempire a tempo record centinaia di fogli di carta da lettere che mai nessuno avrebbe letto.
ma lei pareva accontentarsi in quei momenti di leggere sè stessa attraverso le parole che nel frattempo avanzavano incerte sul supporto ormai unto, a fotografarle una realtà che continuava a negare come se depositando le sensazioni sulla penna quel ciarpame appartenesse a un'altra sfortunata.

mercoledì 3 febbraio 2010

Qualcuno lontano piange.

E' notte e stranamente un bambino piccolissimo ha iniziato a piangere oltre il muro della cucina, come se fosse la proiezione di un male interno, a cui non diamo nome perchè anche se nessuno ci creda non ne abbiamo la più pallida, e via dicendo.

Sento il suo pianto e allora devo aprire la finestra, è il personaggio che fa tutto, gli viene fatto notare nel frattempo che ha indossato anche la felpa dal lato sbagliato, come al solito giustificandosi con il non convenzionale e tutte le altre robe che poi critica negli altri quando in questi sono ragionate nel dettaglio, strategie da guardaroba o da rotocalco, ma a chi lo vai a spiegare se non all'esposizione di grucce dai nomi come le vite dei dodici cesari, braccia plastiche che si allungano avide a sorreggere pezze del mercato delle pulci o cimeli dei cestini dei saldi dei saldi, guadagnati tra bionde cellulitiche e mamme identiche.

Il personaggio apre la finestra, ascolta quel pianto e vorrebbe essere di colpo quel suono stridulo, per andare a dormire tranquillo, come il gigante buono del miglio, avendo tolto la pena al più debole, che è l'unica cosa che distoglierebbe dal pensare al suo di male, maledetta o maledetto, questo male che inventandoselo giorno per giorno ha finito col rendere vero, e ora lo guarda e gli solletica lo stomaco e le sacche lacrimali muovendo le emozioni a capriccio, corde dell'anima che pillole e rimedi d'erboristeria hanno già ampiamente contribuito a confondere.

e poi il ricorso ai proverbi delle canzoni, per andare a dormire.
cause a heart that hurt is a heart that works,
no one can take it away from me....
no one can tear it apart...

martedì 2 febbraio 2010

POSOLOGIA DEL DOLORE: dose, modo e tempo di somministrazione.

- Fate scivolare lentamente sotto la lingua una dopo l'altra le gocce amare che inevitabilmente la salivazione inizierà a produrre aiutandosi con la bile, che nel frattempo deve essere mantenuta sotto controllo con respiri e massaggi locali, affinchè non evada dalla sua sacca contaminando coledoco e fegato.
- Se siete al lavoro, assicuratevi di abbassare la testa dietro lo schermo della macchina infernale, creatrice di questi disguidi, facendo attenzione a che le lacrime acide non bagnino la tastiera che altrimenti dovrete pulire alla meglio con il bavero della giacca, mimando una certosina operazione di pulizia da ciuffi di polvere, capelli o punte di matita che si sono casualmente proprio nello stesso istante incastrate sulla tastiera.
- Piangete piano, ingoiando i singhiozzi e cercando di incanalarli dentro lo stomaco, senza emettere rumori. (potete esercitare questa pratica a casa, mandando giù per la trachea un uovo sodo tagliato per il lato lungo in due metà coincidenti).
- Se il pianto diventa troppo copioso o non avete a disposizione abbastanza pixel o pollici a difendervi, adottate la tecnica della congiuntivite, o del raffreddore, o delle influenze che seguono le lettere dell'alfabeto. Coloro per i quali il vecchio trucco della lente a contatto o della ciglia nell'occhio risulti non obsoleto, possono continuare sulla falsariga della vecchia scuola comportandosi come da manuale.
- Assumete due volte al giorno i vostri fallimenti, le risposte sbagliate alle domande che non avreste dovuto fare, le disattente attenzioni che vi si riservano, gli interrogativi senza punto. Questo migliorerà la circolazione dell'angoscia lungo le viscere, evitando di appesantire il cuore e paralizzarlo col tempo.
- Evitate luoghi aperti, finestre, balconi, così come luoghi chiusi quali stazioni di metropolitana, camere con lampadari, armadi. Tenete lontano dalla vostra portata tubetti dai nomi fantasiosi come porte di cristallo verso altri mondi, bottoni colorati che se assunti per molto tempo diminuiranno l'effetto del prodotto, fino a farlo scomparire.
- Respirate a fondo, cercando di sentire l'effetto del prodotto sotto il petto, all'altezza dello sterno, dentro le meningi, sulle punte delle mani e dei piedi che tenderanno in alcuni soggetti ad improvvise alterazioni della temperatura (troppo fredde o troppo calde).
- Approfittate del flusso di sangue verso il cervello per ripassare mentalmente il volto delle persone che vi hanno somministrato involontariamente questo farmaco, e pianificate per i suddetti un'adeguato trattamento.
- Non dimenticatevi di pensare che il prodotto è ad uso del singolo, a volte di intere comunità ma ha effetti differenti a seconda dei soggetti interessati e della dose consigliata.


Non sono stati riscontrati effetti sulla capacità di guidare, anche se consigliamo di aspettare almeno un'ora prima di mettersi alla guida di qualsiasi mezzo di trasporto.
Gli effetti del prodotto sono invisibili per gli altri, a meno che questi ultimi non lo abbiano assunto a loro volta o riconoscano la patologia per vicinanza di sangue o d'intenti.

Interazioni:
-dipendendo dai soggetti, l'uso della musica può ridurre, amplificare o annullare completamente gli effetti di DOLORE.
- se associato a droghe, può avere effetti indesiderati. In tal caso, chiedere assistenza spiegando per quanto tempo si è assunto il prodotto e in quale dose.

Precauzioni d'uso:
- si consiglia di assumere il prodotto a stomaco vuoto.
- tenere fuori dalla portata dei bambini, degli anziani, o di affetti da patologie cardiache o insufficienza respiratoria.

- Se assunto nelle dosi consigliate, il prodotto riesce ad indurire completamente la parte blanda che risiede nel corpo rendendo l'individuo immune alla maggior parte degli eventi della vita propria e degli altri.

CONTROINDICAZIONI:
- I sintomi di sovradosaggio possono essere letali.
- Sono stati registrati sintomi schizofrenici, lieve isteria, cambiamento repentino d'umore e sporadicamente risata, quest'ultimo comportamento, le cui cause si stanno ancora analizzando, non deve assolutamente essere confuso come risultato di altri trattamenti, anche se tuttora risulta di difficile interpretazione clinica.

AVVERTENZE:
-Gli effetti del prodotto, una volta assunto, non possono essere rimossi.
-Conservare nello spazio mentale più lontano dalla coscienza, perchè si mantenga a vita o si manifesti durante il sonno senza lasciare traccia.

Se la felicità persiste, contattare il medico.

sabato 30 gennaio 2010

Confessioni d'altri

Bastano due frasi, dette con le giuste pause, in contesti e con codici diversi, per non comprendersi.
Rocamadour, buono con me, nasino di porcellana, denti come meravigliosi purosangue, eppure qualcosa nello stomaco piange, perchè vedete Rocamadour, non c'è posto per chi inventa storie, per chi vive la pelle, non c'è posto per nessuno se non per sè stessi a questo mondo, per se stessi in un mondo costruito con le nostre proprie categorie, quelle che fanno dormire bene la notte, non c'è posto, mentre voi, se vi tagliassero a pezzetti il vento li raccoglierebbe il regno dei ragni cucirebbe la pelle e la luna tesserebbe i capelli e il viso e il polline di un dio di un dio il sorriso.

Voi non potete, oh, muy senor mio, non potete sopportare e tollerare, potete ma a noi non basta, purtroppo, vedete, è questo il problema, noi ci svegliamo e dalla schizofrenia cantiamo de andrè, ci rivolgiamo al maestro di Parigi o forse di Buenos Aires, ci abbandoniamo a farneticare, ogni gesto per noi è l'identica ed esatta copia del primo (ma del primo forse non con voi, del primo gesto da un tempo imprecisato, del primo da quando le mani hanno iniziato il lungo apprendistato del ventre e delle movenze) ed è là, oh, se voi sapeste, è là che si incrociano le sensazioni che il linguaggio si sforza di far esistere e rappresentare, per regalarvi un pezzo del nostro squallido mondo fatto di parole che inseguono senza senso un'idea, forse una paura,
per prendere quella paura e infilarla piano in una frase amarognola, che puntualmente viene compresa colpita e capita, viene spogliata dall'immaginario con cui avevamo tentato di confezionarla, puntualmente, così voi ci fate crescere, ci fate comprendere che è impossibile o scomodo il ruolo del bambino o del pazzo, o del filosofo senza tempo, che chiede aiuto al maestro precedente e a quello di ancora prima.
Rocamadour, questo nome è esotico e forse ci piacerà iniziare a chiamarla così, come se fossimo la Maga, scrivendo parole nello specchio e bagnandoci il dito per non piangerci sopra, perchè non siamo in grado di comprendere la bellezza della vita che voi ogni giorno ci affermate di vedere tra le nostre mani, seta invisibile e delicatissima, che continuiamo ad annodare attorno a pensieri stanchi e ai tumori volontari generati dal dubbio e dalla gelosia di voler essere qualcun altro che ancora non sappiamo chi.
Non so perchè ci riduciamo sempre a scrivervi, a voi così come agli altri, quando è per noi che dovremmo scrivere, coccolarci con le nostre stesse armi, per iniziare ad amarci un po' di più, per iniziare a comprendere la bellezza del nostro sentimento che ci rende così sciocche, oh, se voi sapeste come preferirei giocare a far la donna in carriera o la femme fatale, ci proviamo e ci proveremmo ancora se non comprendessimo che sono figure troppo grandi e sbagliate per noi, le loro unghie verranno irrimediabilmente rosicchiate al primo accenno di debolezza dal bambino sciatto o forse dall'incurabile malato, se voi sapeste la forza del nostro volerci cambiare, a differenza di chiunque, per modellarci attorno alla vostra figura con l'ansia camaleontica della metamorfosi continua, come uno stampo di gesso, assumendo la forma dell'ideale che è nella vostra testa, senza concluderci che non c'è ideale e che figurarci intorno ai vostri pori non è la scelta che condurrà alla felicità, eppure, Rocamadour, la colpa non è vostra, voi ci amate e noi lo sappiamo, ma sappiamo che ancora una volta, se anche voi sapeste- oh, perchè devo dirlo a voi, perché, -se voi sapeste, che dentro le ossa c'è una vita che ha preso la forma dei vostri polpastrelli, ma è dentro la nostra testa che non riusciamo ad essere vostra, per comodità o per affaticamento, voi forse riuscireste a comprendere, e ci abbandonereste in un sorriso, con i migliori auguri di non rovinare la vita a nessun altro e iniziare a cercare noi stesse. Ma questo non ve lo posso confessare, e voi non potreste arrivare a comprendere il disegno di una psicopatia ormai talmente rodata che ci appartiene tanto quanto le unghie dei piedi o delle mani.
Eppure voi, Rocamadour, musica tra le lenzuola, fili d'argento tra i capelli, Rocamadour, casa, cucina, bacio, torta.......

martedì 12 gennaio 2010

12 gennaio 2010 - non ricordo altro


Ci sono delle cose che succedono e basta, pensava N. ricordandosi della Tana.

Accade, per esempio, che nel momento di più completa e perfetta felicità, qualcosa soggiunga a rabbuiarci, creandoci non pochi problemi. Basta un colore, per sentirsi squallidi, e guardare la propria vita come la guarderebbe un'altra fortunata.

N. aspirava nervosamente la sigaretta in un silenzio fatto di sonno, l'alba sarebbe arrivata tra poche ore. Accanto a lei riposava beatamente tutta la sua felicità, abbastanza distante per poterla guardare e stimarne il valore socchiudendo le palpebre.

In quello strano flusso di coscienza che accompagna il dormiveglia, N. forse non si sentiva ancora pronta per tutta quella grazia ricevuta di colpo, che la faceva sentire un essere piccolo, piccolissimo di fronte alla meraviglia di quel mondo.

Talmente tanta meraviglia che avrebbe potuto rimanerne stupefatta, ma stupefatta come da uno stupefacente.

Ripensò alla Tana, e a cosa avrebbe dovuto fare. Forse raggiungerla attraverso i suoi riccioli scomposti, in un mondo fatto di sterco e rassegnazione in cui lei riusciva a sorridere dall'alto della sua disperazione, dalla quale aveva tirato fuori un vestito niente male da indossare giorno per giorno come uno scafandro d'alluminio, per garantire l'immonda sopravvivenza del teatro di scena, che peraltro cambiava in continuazione.

Ora N. ripensava nel sogno a quell'assurda commedia, chiedendosi se mai fosse accaduta.
Adesso era là, al sicuro dal sangue e dall'odore di piscio dei rincones, al sicuro dai pugni sul naso e
dalle fitte dentro lo stomaco.

L'aria della notte si stava cancellando e andava prendendo la forma del respiro o del fumo.
N. chiudeva gli occhi, come tutte le notti senza volerlo veramente fare, e là ripensava alla sua gioia, alla Tana che piangeva, vedeva i suoi capelli tristi sul viso smunto, le costole ossute a bucarle i jeans ormai sgualciti.

-Adesso starà aprendo la porta al mostro, accogliendone gli insulti come la solita bienvenida, il rimprovero per la tavoletta del water macchiata di sangue, le tende da mettere in lavatrice, la corrispondenza e i documenti a inondare il letto, già pieno di briciole e appiccicoso di qualcosa che doveva essere miele. Gli servirà l'ottima cena che era riuscita a rimediare in uno dei suoi pali- si, la Tana faceva il palo, la si vedeva ogni giorno alle tre davanti a quel bidone, aspettando l'ora consueta in cui il garzone avrebbe rovesciato primizie di carne, pescado e verdure nella voragine metallizzata. A quel punto, incurante degli sguardi ingioiellati che svuotavano i carrelli ricolmi dentro gli interni in pelle del compagno di turno, avrebbe aperto avidamente il suo rancio, guadagnando una zucchina, dei peperoni, qualche coscia di pollo, e se fosse stata fortunata, degli strepitosi gamberetti. Immaginava il modo in cui li avrebbe cucinati, e come gli avrebbe raccontato la lotta per la conquista del bidone, la difesa del cibo dalle grinfie delle egiziane, che giustificavano la necessità col numero dei figli e dei mariti, e Monica, la buona Monica, coi suoi occhi tristi da ubriaca a scalciare perchè anche lei di figli ne aveva, ben tre, e suo marito era in carcere perchè era stato denunciato e la picchiava, e i suoceri la tenevano rinchiusa in una stanza senza luce, ma questa è un'altra storia.
Tornata a casa, avrebbe contato le ore, e racchiuso i desideri nel guscio di ogni gambero, dominando l'angoscia dell'attesa coi mestoli, giocando con le bolle dell'acqua, assaggiando ogni portata con un immancabile mmmmmmmm che si faceva sempre più acuto nell'aria, si univa al profumo delle pietanze e si infilava sotto le porte e le finestre fino al patio- tutti, l'avrebbero sentito
entrare e sbraitare per il disordine che era il suo, costruendo a insulti la rivendicazione del maschio dominante. Era questo che concludeva quell'ora tanto ricamata durante il giorno a suon di sospiri e sbattere le uova con la farina, punto 3 della ricetta di una tarta de chocolate che ingurgitava senza lasciarne traccia del passaggio tantomeno a parole.
Povera Tana!

"Molta gente mi chiede perchè lo faccia, se sono nata masochista o sono semplicemente pazza." -
raccontava la Tana al cerchio dei curiosi, con un'istituzionalità da conferenza stampa - "io dico semplicemente che sto facendo Esperienza, e mi va bene cosi'." Poi sorrideva, domandava da far su, e in una nuvola di fumo spariva- nessuno l'ha vista piangere mentre si allontanava facendo spallucce come l'eroina di uno dei racconti che scriveva per ravvivare il caminetto immaginario nei giorni d'inverno, col broncio di una bambina bellissima che ha perso la sua bambola preferita in una domenica al lago-

E poi un repentino cambio scena, breve come uno sbatter d'ali o di palpebre, annunciava la favola ormai consueta.
La favola era un sogno che N. ripeteva ogni notte, dal giorno in cui la Tana l'aveva salutata con la mano nell'ultima despedida.


Lei era piccolissima, e una barba ignota le consegnava la chiave d'accesso a un giardino di cristallo, fatto di alberi enormi che pullulavano di frutti e fiori magici.


La sfortunata non era stata avvertita di camminare piano, con una lentezza d'incenso. Le avevano così aperto la porta e lei aveva corso, come d'abitudine, misurando le gioie del suo raccolto, e meravigliandosi che quello che da sempre aveva seminato in forma di lacrima o di mare sotto il cuscino era ormai mirabile opera del destino i cui frutti baluginavano al sole di un cielo qualunque.


Ma appena terminava di compiacersi che un rumore improvviso, come d'uragano, scuoteva la terra, e lei si rendeva conto solo un attimo dopo di aver interrotto la religiosa quiete coi suoi passi rozzi e senza equilibrio. La terra le si apriva sotto i piedi stridendo come lo strofinarsi sincronico di due metalli, e mentre un lamento di sirena accompagnava l'irreparabile squarcio ecco un bubbolio sempre più vicino, un ribollire d'api o di calabroni e poi uno ad uno i suoi frutti che iniziavano a cadere, e N. doveva superarsi e correre per salvare tutta quella bellezza, e mentre ne afferrava uno, l'altro irrimediabilmente seguiva una linea verticale subito dietro le sue spalle, arrestava un bocciolo e subito davanti ne stavano altri venti che la beffavano in mirabili cadute.


Rotolavano a terra e si rompevano, uno dopo l'altro, con un fragore di milioni di posate che cadono all'unisono su scale di ceramica, e per inerzia alcune rotolano, con un lamento che si ripete come un' eco, e N. avrebbe voluto prenderle tutte, ma le sue mani erano piene di tagli, e tutto continuava a cadere, ed ora dimentica di ciò che stava facendo, lasciava rotolare quello che aveva appena afferrato per riuscire a fermare dalla distruzione quell'altro, poi l'altro ancora, e le cose continuavano a cadere, e lei sapeva di aver rovinato tutto senza volerlo, lei voleva, ma non era pronta per tutta quella ricchezza, che adesso le si sbriciolava contro, e addosso, e le tagliava le mani, e il labbro superiore, e gli occhi pieni di sale, e le scarpe da cui ormai uscivano dita gelide e piene di sangue.




mercoledì 6 gennaio 2010

Il gioco del mondo.

Holiveira, la sua hangoscia
mi entra nelle ossa. Gira, spinge, ed entra dentro di me.
Oggi riprendo i medicinali sui comodini nuovi eppure stanchi.
Brividi nella pelle, brividi holiveiriani.

Vomito al mio specchio parole che non sappiamo,
sentendomi felice nei nuovi abiti, uguali a tutti gli altri riposti nell'armadio.

L'esistenza non riscalda. Le letture fotografano troppo,
o troppo bene, e ti impediscono di tentare nuovi approcci,
che solo si consumano in patetiche illuminazioni letterarie,
subito incenerite dall'ennesima accensione.

Il tuo stile incontrollato e sciatto,
come sempre, rigurgita vocabolari che ormai non so se mi appartengono o no.
Forse non mi sono mai appartenute.
Forse sono parole d'altri, o di altre.

La dannazione di vivere in una dimensione del sogno, come le notti bianche di San Pietroburgo.

Perchè non si riesce ad essere mai felici,
per soggetti come noi?

Perchè non abitare un altro corpo,
o forse un'altra anima,
perchè questi repentini cambi di scena,
questi sùbiti singulti dell'io,
che in un momento si riconosce e quasi
istantaneamente perde la soluzione vicina
con un supplizio nemmeno tantalico tanto effimera è la sua durata?

Holiveira mi possiede, o forse sono io che possiedo lui,
avviluppata in pagine umori e vita vera.
La vita vera. Forse mi rendo conto,
che non esiste che nel sogno.

E a nulla serve la consolazione degli altri,
che di questo stato hanno saputo farsi profeti,
le cui parole non vanno ritoccate neanche di una virgola,
a nulla serve l'angoscia di Lisboa,
il desassosiego,
l'apprendimento svogliato di un portoghese spicciolo
per ovviare ai brividi e al tedio,
a nulla le parole dell'uomo di Duino, di San Pietroburgo,
di Buenos Aires.

Io sono colui che sto leggendo,
oppure è lui che vuole entrare in me,
con un impossibile anelo.

Che gli dei mi concedano il beneficio della veglia,
o della stupidità, o l'arma della penna e del foglio
a macchiare centinaia di pagine per guardare
questa passione come nient'altro che
una (s)piacevole lettura.

Altrimenti, un giorno o l'altro,
ne morirò.